Sanremo dopo la polvere
Mia recensione pregna di esperienze e considerazioni sul Festivàl della canzone mentre ancora mi devo riprendere dai suoi orari.
“Come sarebbe il Lucca Comics se avvenisse a Capodanno?” questa è la più precisa definizione che mi venga in mente per descrivere il clima di Sanremo la settimana del Festivàl della canzone italiana. Una città piccolissima stipata di appassionati di musica italiana, cosplayer di cantanti famosi, curiosi, karaoke improvvisati ad ogni angolo, negozi addobbati con note musicali e fiocchi giganti, pantaloni di strass ovunque, gente in gita, e un sottobosco di addetti ai lavori che fanno la gara a chi ha più pass, più occhiaie e più aneddoti. Per me era il secondo anno, e ci sono tornata molto volentieri visto la prima volta avevo assorbito l’aria festaiola e come succede per il parto e per i traumi avevo scordato le fatiche; l’anno scorso ci sono stata dodici giorni perché avevo il ruolo di traghettatrice dal Prima Festival al Festival vero e proprio dal balconcino Generali (mi sono rivista in tv? No. Lo avevo detto a qualcuno? Nemmeno, era tutto talmente avvolto nel segreto e blindato da clausole che alla fine non lo specificai nemmeno a mia madre, la quale mi telefonò subito dopo la prima serata dicendomi “TI HO VISTA AL TG1”. Di solito la gente finisce al TG perché ammazza il vicino, quindi era un sollievo che sua figlia ci fosse per una bella cosa).
L’anno scorso avevo anche da produrre i contenuti social per Generali e tre dicasi TRE date del tour, per cui ho fatto avanti e indietro come il reflusso gastrico: improvviso, acido e che colpisce quando ti sdrai e vorresti dormire. Ero anestetizzata dal sonno e dall’autodisciplina, perché se mi fossi resa conto che stavo andando a parlare di fronte a nove milioni di italiani sarei volata di sotto. Avevo scritto i miei copioni insieme agli autori, e avevo lottato spremuto ogni goccia neuronale perché sembrasse una cosa non allegra ma non facilona, professionale ma non ingessata, leggera ma non superficiale. Sono anche riuscita a far passare una splendida battuta su Alberto Angela.
Quest’anno quindi mi sentivo una veterana. Ricordavo dove prendere la mia focaccia preferita, ho passeggiato per le vie illuminate senza guardare il navigatore, ho salutato colleghi che vedo solo in queste occasioni, ho ricomprato un paio di collant setosissimi in una merceria che avevo scovato l’anno scorso in via Palazzo*. Quest’anno dovevo fare dei contenuti per i brand che mi avevano ingaggiata, e quindi con un anno di esperienza alle spalle pensavo di sapere come dosare le energie. Povera faggiana.
Il mio ritmo sonno-veglia ha la flessibilità di una scogliera nonostante siano anni che faccio tardi per gli show. Ho fatto i bagagli alle cinque e mezza del mattino. Ho il jet-lag. Sono settata sugli orari di Sidney.
La continua ricerca di cibo e di un posto in cui acciambellarmi e riposare metà cervello come i piccioni mentre ricarico il cellulare ha consumato gran parte delle mie energie, e la restante parte l’ho dedicata a creare dei contenuti interessanti e avere un aspetto gradevole**.
Ora, i più arguti di voi avranno notato che in questo resoconto fino a questo momento la grande assente è la musica; io sono una che ascolta prevalentemente dischi di gente con un piede nella fossa, mi aggiorno forzatamente ogni Gennaio sui cantanti perché voglio essere una donna informata e non una vecchia millennial che si lagna di quanto la musica di ora sia insapore.
Ma al festival della canzone, se sei fra gli addetti ai lavori, la sfida è avere il tempo di ascoltare effettivamente le canzoni.
Immersi in un brodo primordiale di conferenze stampa, notizie, illazioni, tweet, e quello ha detto e quello ha fatto e quello ha un tatuaggio nuovo e quella si è grattata una chiappa mentre cantava cosa vorrà dire indaghiamo, finisce che per ascoltare le canzoni devi proprio sederti e volerlo fare.
Durante il festival tutte le tv di qualunque peggiore bar di Caracas trasmette il festival, ma tutti parlano, tutti si confrontano, tutti fanno networking e tutti passiamo da un locale all’altro e da una cena a una festa, quindi morale della favola io le canzoni le ho sentite effettivamente tutte-tutte-di filato solo la sera della finale. Quando c’era LVI (Amadeus) il festival durava quanto il Congresso di Vienna, quindi obiettivamente non ti perdevi granché. Quest’anno invece siamo andati spediti come bersaglieri alla parata del 2 Giugno perché boh non lo so forse a Carlo Conti scadeva il parcheggio, quindi ho messo insieme i pezzi solo negli ultimi tre giorni.
Ed ecco, sulla scia finale della polemica sul podio esclusivamente maschile e le proteste per il posizionamento di Giorgia, le mie osservazioni:
Ho avuto l’impressione di assistere ad uno show il cui brief era “facciamo una puntata di Una Pezza Di Lundini, ma sul serio”. Cfr. Fagli le coccole e il duetto con Topo Gigio (che ho comunque apprezzato).
Poiché le canzoni hanno effettivamente una chance se diventano dei suoni virali su TikTok e Instagram, la musica tutta si è evoluta in canzoni più corte e ritornelli particolarmente adatti all’uopo. Nessuno sano di mente farebbe uscire Starway to Heaven oggi, perché non c’è la parte TitkTokabile e dura troppo. I Queen verrebbero mandati pe’ stracci, David Bowie forse avrebbe una possibilità ma non ci giurerei. Morale, probabilmente le ultime canzoni a restare nella storia per anni saranno Despacito e Gangnam Style. I said what I said.
I veri vincitori sono stati Marta Donà, l’inarrestabile agente che ha creato Mengoni, Francesca Michielin, Cattelan I Maneskin (e che ha avuto la prontezza di non trattenerli ma lasciarli andare prima che le esplodessero in mano perché oramai famosi a livello internescional) ma la misoginia conta al massimo fino a tre e poi si esprime, quindi eccoci qui con le illazioni sulle irregolarità di voto. Perché la misoginia è pensare che Jeff Bezos si sia meritato i suoi miliardi ma se una donna vince allora c’è qualcosa di strano (uhm, quindi lo ammettete che è un’eccezione e non è mai previsto che vinca una donna). Su questa vicenda non so altro, mica so’ Fabrizio Corona, però mi aveva impressionata la rapidità con cui si è passati dal lodarla al puntarle il dito contro.
Ciò che gira intorno al Festival è più grande del festival. Per i cantanti si tratta della possibilità di riempire le venue dei concerti e sfuggire alla tendenza globale della crisi dei sold-out (molti cantanti internazionali fanno fatica a vendere i biglietti e anche i festival musicali non se la passano troppo bene). L’aumento dei biglietti dei concerti, l’inflazione, il costo del carburante per spostare la gente da una parte all’altra e tutto il restante cucuzzaro di costi ha una chance in più di essere recuperato se i cantanti si prestano a questa estenuante maratona fra Stylist, autori, PR, conferenze stampa e azioni da ricordarsi di fare sul palco per il Fantasanremo, che è un grande motore di attenzione (hasta la gamification siempre). Dietro la facciata di festival della canzone Sanremo è un gigantesco amplificatore di attenzione. E non ci possiamo lamentare del fatto che sia a tutti gli effetti un contenitore macinamarketing, perché senza i meme non passeremmo nemmeno mezz’ora a discutere di cosa è successo su Rai Uno. Io sono la prima a creare contenuti in merito perché mi diverte e perché la struttura delle serate è fatta apposta per favorire la memabilità. E per navigare in questo mar bisogna essere veramente bravi.
Tutto questo ci porta al punto “podio maschile”. Scusate se la butto sui soldi, sono Toro, ma secondo me è una questione di investimenti pura e semplice.
Sulle donne non si investe abbastanza? Probabile. Tendenzialmente se una fetta di lavoratori di un settore segnala che c’è una disparità io cerco di ascoltare e capire le loro ragioni, perché probabilmente è vero anche se non si può ancora puntare il dito e dire dove si inceppi il meccanismo. Assolutamente plausibile che ad un investimento inferiore corrisponda un risultato inferiore. La colpa è delle donne che non si impegnano? L’impegno di base delle donne per comparire in pubblico equivale al massimo sforzo che un uomo compie il giorno del suo matrimonio. Fatela, una settimana come Taylor Swift, e vediamo se non la finite alla neurodeliri per un crollo emotivo dopo tre giorni.
Però.
Giorgia avrà pure avuto un posizionamento inferiore alle aspettative, ma sicuro ha avuto il vantaggio che le serviva: vendere i biglietti. La sua canzone era più bella di quella degli altri? Onesta, secondo me no. Abbiamo difficoltà a votare per le donne? Probabile, le donne vincono quando muovono le pedine, non quando sono la pedina. E anche in quel caso a qualcuno sembra ingiusto. Vedi Marta Donà.
Il risultato si vede sulla lunga distanza. Giorgia fa concerti da trent’anni, e si è lasciata alle spalle un mucchio di artisti (uomini e donne). Credo che se la caverà. Prima che i tre del podio di Sanremo ottenga ciò che ha ottenuto lei ne devono passare di gocce di memoria sotto i ponti.
Forse la lezione per tutte noi è quella di allargare lo sguardo. Magari vincere i cento metri non è ciò che fa per noi. Magari vinciamo le maratone. Magari vincere tutto poi ti esaurisce. Magari la bravura sta nel capire quando mollare i Maneskin della nostra vita e iniziare a sviluppare qualcosa di diverso. Quindi occhi aperti, ma controlliamo bene cosa desideriamo che l’Universo non ci mette niente a mandarci un altro accollo.
Fine
*Marca dei collant: Girardi. Lo so, sono famosi, ma io sono una selvaggia e li ho scoperti a trentotto anni occhei?
**Tutto ciò è comunque preferibile al dover fare un meeting in cui ti spiegano come si compila una nota spese, quindi sono convinta che la mia scelta di carriera nel passare da consulente a comica sia stata favorevole a prescindere da queste piccole fatiche da primo mondo.
«Ne devono passare di gocce di memoria sotto i ponti» è semplicemente meraviglioso (e anche verissimo).
Infatti Giorgia l’ha detto: la standing ovation, l’affetto del pubblico dopo tutti questi anni è la vera vittoria. E si, io amo Giorgia, ma la canzone non è un granché